Con la musica succede. Lo sa bene anche chi è semplicemente un ascoltatore e non necessariamente un addetto ai lavori. Non avevi mai fatto caso che in un angolo riposto di quella sinfonia due strumenti dialogano e sono poche battute che rivelano suggestioni incredibili. Ci voleva la lettura di quel direttore o di quella direttrice, in una sera come tante, per fartelo scoprire.
Per la cerimonia inaugurale dei Giochi della trentatreesima Olimpiade accade lo stesso. La multiforme varietà sinfonica proposta da un evento che supera, a forfait, i 250 minuti non può certamente arrivare immediatamente a ogni fruitrice e ad ogni fruitore in tutta la sua interezza. Proprio come avviene per la musica, questa volta forse occorre che l’umiltà laica di chi assiste accetti di ricevere il messaggio anche in tempi dilatati, prima di liquidare tutto con una superficiale sbadigliosa alzata di ciglia.
A mio avviso Thomas Jolly, l’ideatore dell’evento che, davvero non a caso, è prima di tutto un uomo di teatro, ha raccolto perfettamente la lezione di Luca Ronconi e ha trasformato la cerimonia inaugurale di Parigi 2024 in un evento multilaterale. Nessuno, neppure Emmanuel Macron o Thomas Bach e nemmeno Tony Estanguet questa volta vedono tutta la cerimonia. Tutta: in corsivo. E mai come in questa occasione i corsivi hanno il loro peso. Perché le summenzionate autorità vedono la cerimonia soltanto dall’angolo di prospettiva in cui si trovano. Che – ed è sicuramente davvero la prima volta – è qualcosa di molto diverso dall’osservazione gerarchica e variamente privilegiata che ha proposto ogni stadio in qualunque delle cerimonie precedenti della storia olimpica.
Nel 1990 Luca Ronconi mise in scena Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Krauss negli spazi del Lingotto, a Torino. Era il momento più livido vissuto da quell’area che aveva rappresentato il cuore della produzione industriale italiana per decenni e che in quel momento era invece alla ricerca disperata di una nuova destinazione. Ronconi allestì lo spettacolo in quell’area immensa, ormai dismessa, in cui le vecchie presse Fiat (uso un termine generico probabilmente anche impreciso) giacevano inerti come fossili di dinosauri. Nessun posto a sedere era previsto per il pubblico e le attrici e gli attori coinvolti interpretavano i loro innumerevoli quadri (Gli ultimi giorni di Krauss è opera fluviale: come la Senna…) in tante sedi diverse offrendo quindi a spettatrici e spettatori tante prospettive diverse. Niente prima fila in platea; niente posti in loggione da cui fare capolino tra una colonna e l’altra. Un mio amico avrebbe chiosato: uno spettacolo da cumunisti. E sempre il corsivo si impone, naturalmente.
Thomas Jolly nel 1990 era un bambino ed è improbabile che fosse al Lingotto in quel freddo dicembre. Ma la lezione di Ronconi l’ha accolta, eccome. E magari, chissà, sono stati ancora proprio i ronconiani cavalli di legno dell’Orlando Furioso degli anni Settanta a suggerire quella corsa sfrenata del cavallo meccanico nel buio sulle acque della Senna…
Un termine mi viene in mente prima di tutti gli altri per definire la cerimonia inaugurale di Parigi 2024: multilaterale. E mi permetto di dire che senza questa interpretazione l’evento può soltanto infastidire. Qua non c’entra se siete fan di Ronconi – chi scrive lo è stato smisuratamente, d’accordo – o non lo siete per niente e non sarete neppure mai fan di Thomas Jolly. Qua c’entra la volontà di essere multilaterali. Che non è necessariamente un dono naturale: è un’attitudine che si assume o non si assume. Ed è un’attitudine che con il teatro – e per esteso con le peculiarità spettacolari della cerimonia di Jolly – ha perfino a che fare fino a un certo punto. Perché se siete multilaterali, lo siete in teatro e fuori. Se non lo siete, diciamo che in qualunque momento vi si offre la possibilità di diventarlo e non è escluso che vi divertiate anche di più. In teatro e fuori.
Chi scrive di cerimonie inaugurali delle Olimpiadi dal vivo negli stadi ne ha viste un discreto numero. Ne ha viste di belle e di bellissime. E poiché chi scrive a quegli eventi è intervenuto nel ruolo di fotografo, oltre che di cronista, sul tema della prospettiva dalla quale guardare l’evento stesso si è inevitabilmente sempre interrogato. Certamente mai come in questa occasione il centro di gravità della cerimonia è stato così criptato. E questo è indiscutibilmente spiazzante. E non soltanto per i fotografi.
Non è vero, però, che la cerimonia di Thomas Jolly non abbia un perno intorno al quale orbitare. Si tratta però di guardare a quel perno con occhi nuovi. (Eddài: immaginavate forse che qualche suggestione proustiana non venisse fuori prima o poi..?)
Il perno è Parigi: la sede dell’evento specifico, ma anche il luogo in cui si è distillato l’ideale olimpico. Ma soprattutto: uno dei luoghi in cui si è fatta la storia del mondo. E non fingiamo di non saperlo perché Parigi è una di quelle città del mondo in cui non puoi fare un passo senza fare i conti con la storia. Anzi: con la Storia. Quella con la maiuscola e, se occorre, di nuovo anche in corsivo.
Qualcuno che conosco una volta ha scritto che ci sono città delle quali è quasi impossibile scrivere una guida perché ciascuna e ciascuno di noi quelle città le ha già visitate talmente tante volte attraverso le suggestioni letterarie, attraverso le immagini del cinema e – in particolare negli ultimi decenni – quelle della cronaca televisiva e dei social, che ognuno e ognuna sa già bene ogni cosa e sa come si fa.
Certo, però, che, a chi scrive, la Passerelle Debilly – quella percorsa mille volte, che è quasi davanti a una brasserie in cui il medesimo ha speso molte belle ore della sua vita – fradicia di pioggia e popolata meravigliosamente dal mondo nella sua straordinaria multilateralità, qualche emozione anche nuova l’ha prodotta.
Ognuna e ognuno sceglierà poi la top ten delle emozioni suggerite da quella cerimonia di Thomas Jolly, figlio artistico di Luca Ronconi. E come avviene per la musica, anche chi ha fatto sbadigliosamente spallucce durante i 250 minuti, magari elaborerà con il tempo che c’erano suggestioni davvero interessanti da raccogliere. La multilateralità richiede tempo. Ma di tempo ce n’è in questa città, cantò qualcuno. Anche se forse adesso ho confuso le guide turistiche.
(foto di copertina: Massimiliano Naldoni)
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