Dove non si parla di Enzo Jannacci come potrebbe sembrare, ma si discetta di calzature italiane, di modelle americane, di ginnaste tedesche, di guardalinee britanniche, di pruriginose goffaggini televisive iraniane, di fotografie e di dress code…
Da giorni mi appare un banner sullo schermo del PC. È la pubblicità di una notissima azienda italiana di calzature e la testimonial è la venticinquenne modella Hailey Baldwin Bieber. L’azienda in questione produce scarpe sportive e il banner reclamizza alcuni suoi modelli. Se poi con quelle belle calzature, solo di fatto sportive, in realtà non ci vuoi mai fare sport e le vuoi solo usare come street shoes perché ti piacciono, sono naturalmente fatti tuoi. E sono fatti tuoi peraltro anche gli abbinamenti di quelle stesse calzature con il tuo outfit preferito. Proprio per quello mi è venuto spontaneo di chiedermi che cosa abbia a che fare il capo intimo di Hailey Bieber, ampiamente esibito in quelle immagini, con le scarpe che calza. Perché il banner che mi appare sullo schermo del PC è diviso in quattro immagini. Nella prima si vede Bieber a mezzo busto con una felpa grigia; nel secondo un dettaglio delle sue gambe, dal ginocchio i giù, che calzano le scarpe reclamizzate. Nella terza immagine di scarpe non c’è traccia (come del resto nella prima), ma in compenso si vede Hailey Bieber che, guardando l’obbiettivo che la sta ritraendo, solleva la lunga felpa grigia e scopre una parte della coscia e rende visibile il capo intimo bianco che indossa. Situazione analoga si ripropone nella quarta immagine del banner che si propone come il completamento della prima: non si vede il volto della modella americana, ma di lei, che si immagina appunto impegnata nello stesso movimento ginnico della prima foto, è ritratta una parte della coscia, con la felpa che copre il busto e lascia ancora scoperto l’intimo, e finalmente la calzatura reclamizzata.
Scorrendo gli articoli che varie testate in questi giorni hanno dedicato all’evento ci si accorge come tutte si affrettino a sottolineare che questa campagna pubblicitaria sia un prodotto tutto al femminile: la global ambassador Hailey Bieber è stata infatti immortalata dalla fotografa Stevie Dance. La corsa (affannosa..?) a sottolineare quella significativa partecipazione tecnica femminile al progetto sembra perfino voler mettere le mani avanti nei confronti di possibili critiche in stile #metoo. Sarebbe interessante sentire cosa pensa Sarah Voss dell’utilizzo di immagini con determinate prerogative per la promozione di un prodotto che con quelle stesse immagini a prima vista risulta davvero poco sintonizzato. Se produco abbigliamento intimo e lo voglio promuovere, è naturale che mobiliti modelle e modelli che indossano i miei capi ed è presumibile che le immagini della campagna pubblicitaria mirino a concentrare l’attenzione di chi guarda sul prodotto stesso.
Ma se produco scarpe: siamo sicuri che lo statuario profilo della meravigliosa coscia di Hailey Bieber e l’intimo che la modella indossa abbiano tutta questa attinenza? Mi si obbietterà che le scelte estetiche e artistiche della fotografa Stevie Dance sono insindacabili (o quantomeno sindacabili solo dal committente). E questo certamente non fa una piega. Ma chissà perché, osservando il banner in questione continuo ad avvertire quel ronzio lontano che mi parla di intramontabili e datati espedienti per attrarre l’attenzione. E, poiché datati e intramontabili, si tratterebbe di espedienti che attingono inevitabilmente a un repertorio già ampiamente visto e, evidentemente, mai stigmatizzato a sufficienza.
Non è un caso che prima abbia evocato Sarah Voss: che è una ginnasta della Germania che agli Europei di Basilea (nella foto sopra un momento della sua esibizione), infrangendo una sorta di sacrale e ‘secolare’ dress code, ha gareggiato con una tuta intera al posto dei tradizionali body sgambati con cui da sempre scendono in gara le atlete della ginnastica artistica. La motivazione che l’atleta tedesca ha addotto per questa scelta (peraltro imitata da alcune sue connazionali nella stessa competizione) è che appunto i body sgambati non mettono totalmente a loro agio le atlete nel corso della performance. Inoltre, secondo la ginnasta di Francoforte, l’abbigliamento sportivo non deve trasmettere in alcun modo un subliminale messaggio sessuale.
Le sto già cronometrando le repliche a quanto ho appena scritto. Eh, sì: perché le sento idealmente già arrivare. Avverto chiaramente che da qualche parte, con l’arzigogolato e stizzito gusto del paternalistico contraddittorio, si vorrà equiparare la scelta di Sarah Voss a quella della Tv iraniana che appena pochi giorni fa ha oscurato goffamente le immagini di una guardalinee nel corso di una partita di Premier League in Gran Bretagna.
E invece, è esattamente il contrario.
Perché Sarah Voss, come qualunque altra ragazza e donna del pianeta, dovrebbe essere assolutamente libera di indossare quello che vuole in qualunque situazione senza che questa decisione sia una possibile minaccia alla sua incolumità. E in ragione di quella libertà, a Sarah Voss si deve concedere il diritto di vestire nel modo che lei percepisce come il più adatto per la disciplina sportiva che svolge. Perché sarebbe davvero strano che si lasciasse serpeggiare (come avviene sempre più spesso in questi anni Duemila vestiti da oscuro Seicento) l’idea che nella vita quotidiana è consigliabile la morigeratezza nell’abbigliamento femminile, ma in parallelo si imponesse a delle atlete un dress code a loro stesse non gradito e giudicato dalle interessate proprio non rispettoso della loro fisicità.
Quanto alla campagna pubblicitaria di cui sopra, mi permetto di ribadire che in me genera la stessa impressione delle veline e delle professoresse dei programmi televisivi: ovvero un esempio di oggettivazione sessuale. Che è peraltro il più diffuso meccanismo dei messaggi pubblicitari. Conta poco che al progetto abbiano collaborato delle donne, come appunto si stanno affannando a ripetere con sospetta insistenza gli addetti ai lavori, dal momento che le donne sanno bene quanto alcune di loro siano in realtà fiancheggiatrici più o meno consapevoli del patriarcato. Volete sapere infine cosa penso delle comiche peripezie della Tv iraniana? Beh, magari del pensiero troglodita ne parliamo un’altra volta, dai…
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