Come un po’ tutti gli adolescenti, anche io a quattordici anni avevo convinzioni destinate a resistere incrollabilmente al trascorrere dei decenni e altre, apparentemente saldissime, che si sono dissolte nel giro di un pomeriggio. Con una buona dose di ingenuità, ad un mio compagno di ginnasio, appassionato lettore di Platone, una volta, a proposito di un argomento, credo, abbastanza ordinario e banale, mi permisi di obiettare che stava facendo filosofia. E lui di rimando replicò chiedendomi se per caso fare filosofia fosse un diritto esclusivo degli ateniesi di duemilaquattrocentocinquanta anni prima. Con una sola frase aveva aperto un baratro nella mia stolida convinzione che certe discipline fossero polverosamente confinate nei libri e in un indefinito passato. Per dirla con Esopo, visto che siamo in quei paraggi, il racconto dimostra che è facile osservare nel passato alcune attività del pensiero – e per esteso della creazione artistica – e, ancorché audaci e iconoclaste, riconoscere a quelle valore, ma qualche volta è assai più difficile immaginare che questo possa avvenire di nuovo nel presente. Fintanto che i roaring Twenties sono quelli del Novecento – per buttarla sull’esempio – pare che sia agevole apprezzare qualche tentativo artistico oggettivamente e brutalmente innovativo. Ma appena i roaring Twenties provano ad essere proprio quegli anni Venti in cui viviamo, quelli del Duemila, dunque, allora casca l’asino.
JR è un artista francese di famiglia tunisina (in perfetto stile Banksy, l’artista si presenta soltanto con le sue iniziali che – pare – sono vere, mentre le sue generalità complete sono note soltanto alla polizia degli stati in cui ha realizzato le sue idee senza autorizzazione) che ha prodotto una installazione su una delle facciate esterne di Palazzo Strozzi a Firenze.
L’opera si intitola The Wound (La Ferita) e riproduce una breccia, proprio come quelle prodotte da un’esplosione, sulla facciata stessa del palazzo per aprire idealmente uno squarcio sull’interno. Dico idealmente, perché in realtà l’irregolarissima apertura rivela opere d’arte che non sono collocate in quell’edificio: le più famose tele del Botticelli o una scultura del Giambologna. Non ho visto dal vivo l’installazione e il giudizio è emesso pertanto soltanto attraverso l’osservazione di alcune fotografie, ma l’effetto trompe-l’oeil che ne deriva a me è parso sorprendentemente bello. Come ha spiegato l’autore (che peraltro nelle interviste ha sottolineato come l’effetto dell’installazione si apprezzi più in fotografia che dal vivo), The Wound è l’emblema di una devastazione che la pandemia, non a caso tante volte equiparata ad una guerra, ha prodotto nel mondo in cui viviamo: d’altronde una breccia sgarbata nella parete di un palazzo storico, che lascia esposte ai fenomeni meteo le ricchezze artistiche che contiene, è qualcosa che purtroppo le guerre in ogni tempo hanno prodotto realmente. Evocando quell’Escher delle scale che vanno non si sa dove – che ci piaceva tanto, almeno a quelli della mia generazione, ai tempi della scuola – e perfino, anche, ad un primo sguardo, quella breccia che alla stazione di Bologna ricorda l’attentato del 1980, The Wound di JR prova a produrre discordanze di gradimento e magari, tra gli osservatori/spettatori, anche feroci disarmonie e contrasti polemici. Proprio come avveniva per l’arte dei roaring Twenties…
(Le foto utilizzate in questo articolo sono quelle fornite dall’autore dell’installazione agli organi di stampa)
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