Un “dietro le quinte” di Lutti agli Achei lega musicalmente questo mio ultimo romanzo al precedente, L’Aquila Cieca, che era scandito pagina per pagina dalle hit di alcune delle voci femminili più celebri degli ultimi cinquant’anni: Tori Amos, Joni Mitchell, Suzanne Vega, Aimee Mann, Alanis Morissette
PRIMA PARTE
Se a un certo punto ti accorgi che certi artisti con la loro musica hanno sottolineato molte fasi della tua vita e in un modo o nell’altro ne hanno rappresentato la colonna sonora, è probabile che tu non sia più propriamente un giovanotto (mi chiamava così ancora fino a pochi anni fa solo il mio dentista che, oltre ad essere un serio professionista, è una persona simpatica e in un dentista – quantomeno dalla prima uscita sugli schermi de Il Maratoneta – questo davvero non guasta). Ma se assisti a quel fenomeno, in compenso vuol dire che un po’ di musica l’hai macinata e che non puoi fare a meno di trattare le tue giornate come una bobina di pellicola con cui devi far collimare il sonoro. Ripensando quella consuetudine dalla prospettiva attuale, risulta chiaro che le voci femminili in quella colonna sonora rappresentano certamente la maggioranza. Tori Amos, ad esempio, ha saputo conquistarsi un proprio spazio in molti momenti diversi. Crucify è il primo brano di Tori che ho inserito in una stabile track list. Era uscito da pochissimo tempo e circolava in tutte le radio (stiamo parlando dei primi anni Novanta) con la tipica insistenza con cui allora si propagandavano i brani che le case discografiche avevano deciso di far diventare delle hit. Ero a Trieste e stavo andando in Slovenia nel momento in cui Crucify si è fissato stabilmente nella mia testa e ci è rimasto a lungo. A me è sempre successo così con le canzoni e credo che sia un processo naturale in tutti i fruitori di musica (non necessariamente esperti o addetti ai lavori, intendo): un brano si fissa lì nella testa, risuona anche in presenza di mille altri suoni o rumori oppure in totale assenza di quelli, conquista il suo spazio e se ne appropria, si definisce e si personalizza e si adatta alla tua vita e alla tua esistenza come un vestito tutto tuo. Probabilmente è proprio questo il motivo del successo universale e duraturo di un genere di consumo così popolare come la canzone: che è appunto un vestito che ha fatto qualcun altro e neppure necessariamente per la tua taglia, ma comunque ti calza a pennello. Vale per tutte le espressioni artistiche (che sia un romanzo o un quadro e via discorrendo), ma la canzone è senza dubbio il prodotto più immediatamente fruibile e più autenticamente ecumenico che esista. E poi, dai, buttiamola anche un po’ sul generazionale: va detto che appartengo a quelle leve per le quali il pop è stato davvero un linguaggio universale.
Per non perdere il filo, però, intanto vi propongo il video originale di Crucify, quello che circolava su Mtv et similia, quando il brano è uscito.
Senza andare a scomodare la cabala a proposito dei tanti simboli anche un po’ oscuri che Tori utilizza nel testo, è chiaro che il messaggio sintetico della canzone può svolgere perfettamente il ruolo di abito che si adatta a tutte le taglie. Molti di noi in un modo o nell’altro ogni giorno si colpevolizzano (dunque, in senso figurato, si crocifiggono) per il fatto di non riuscire ad aderire alle aspettative (o, magari, alle pretese) delle persone con cui hanno a che fare. Tori Amos è figlia di un pastore metodista dello stato americano del North Carolina e risulta, dalle biografie ufficiali della cantante, che la scelta operata nel titolo e nel testo del brano di intenzionali riferimenti alla terminologia e all’iconografia liturgica del Cristianesimo non sia stata particolarmente apprezzata in casa a Newton (che è la cittadina in cui Tori è nata). E’ certo però che invece, nel profondo del mio animo sempre, almeno idealmente, irriverente e iconoclasta, quelle scelte hanno avuto buon gioco nel farmi amare il brano e la sua interprete.
Qualche anno dopo Tori Amos è tornata a conquistarsi il suo posto nella mia track list quotidiana con un album intero che si intitolava From The Choir Girl Hotel. Era il 1998. Allora si ascoltava la musica ancora sui CD e io ho acquistato una copia di FTCGH durante una trasferta di lavoro ad Atlanta. Questo che vi propongo, Raspberry Swirl, è uno dei brani più noti di quell’album ed è certamente uno di quelli che ha circolato di più tra radio e Tv .
Cronologicamente tra i due brani che ho menzionato ci sono altre creazioni dell’autrice/interprete di Newton NC. Ma ho premesso che qua non si tratta di compitare scrupolosamente la biografia e la discografia di Myra Ellen Amos in arte Tori, quanto piuttosto di dare uno sguardo al modo in cui il percorso artistico di un autore/autrice possa snodarsi parallelo alla propria vita – e accompagnarla musicalmente – con itinerari inconsapevolmente carsici. Perché infatti è proprio dopo l’uscita di FTCGH che ho recuperato un album che avevo obbiettivamente ignorato alla sua uscita: Boys for Pele. BFP è un album con diciotto brani e qualche perla che non si dimentica come Blood Roses in cui Tori Amos suona il clavicembalo e Caught a lite sneeze della quale circola una versione live che amo molto e che vi propongo.
Ho visto e ascoltato dal vivo Tori Amos qualche anno dopo in un frangente storico certamente particolare. Il 18 settembre del 2001, appena una settimana dopo l’attacco alle Twin Towers, esce Strange Little Girl: un album di sole cover peraltro di brani in origine interpretati tutti da voci maschili. L’album di cover per qualunque artista della musica è un po’ come l’interpretazione di un personaggio dell’altro sesso per un attore o per un’attrice. E’ una tentazione legittima che prima o poi si affaccia prepotentemente nel corso della vita artistica, ma non è detto che quella scelta resti tra le interpretazioni memorabili della carriera. Da fruitore di musica, da ascoltatore e non da esperto, STG a me ha sempre fatto quell’effetto: ci sono esperimenti che ritengo interessanti come Enjoy the silence dei Depeche Mode e Happiness is a warm gun dei Beatles in una versione lunga di quasi dieci minuti (e, perchè no?, anche Rattlesnakes di Lloyd Cole e Heart of gold di Neil Young), ma non finisce certamente sul podio dei prodotti di Tori. Anche se confesso che Rattlesnakes (per i più giovani: canzone degli anni Ottanta di Lloyd Cole and The Commotions) mi si è piantata nella testa alla maniera dei tormentoni estivi. Nell’ottobre del 2001 Tori era in tour negli Usa, con Rufus Wainwright a fare da apripista, e io sono andato al suo concerto di Saint Louis. Al celeberrimo e storico Fox Theatre: letteralmente un monumento della città del Missouri che fu sede delle Olimpiadi del 1904.
Con queste premesse, era inevitabile che le canzoni di Tori Amos finissero dispensate a piene mani nei miei romanzi. Sono stato particolarmente generoso ne L’Aquila Cieca (chi frattanto lo ha letto, lo ricorderà bene). In una fase cruciale del romanzo fanno da colonna sonora alla vicenda la versione live di Raspberry Swirl, ma anche Bliss (dall’album metà studio e metà live To Venus and Back del 1999). Stavo per tornare a parlare di Tori Amos anche in Lutti agli Achei per un episodio biografico dell’artista di Newton NC. Poi ho optato per un altro personaggio della storia della musica. Ah, a proposito, è proprio per quello che nella copertina di questo articolo c’è quella foto di Sheridan Square nel cuore di Greenwich Village. Posizionata in basso sulla parete di lato dell’edificio che si scorge sulla sinistra della foto c’è una targa scura che spiega di chi stiamo parlando e perché. Ma questa è tutta un’altra storia. Magari ve ne parlo la prossima volta…
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